La ricetta di oggi viene
da un libro la cui presenza sui miei scaffali è estremamente
simbolica. Da una parte, infatti, simboleggia il mio essere
estremamente e distruttivamente compulsiva negli acquisti, dall'altra
la mia passione per la cucina etnica in senso lato.
Uno dei ricordi più
vividi della mia infanzia e prima adolescenza sono le lunghe vacanze
estive di famiglia. Di anno in anno si sceglieva una meta e ci si
trapiantava letteralmente lì per un periodo piuttosto esteso, direi
mai inferiore alle due settimane. Il numero dei partecipanti variava,
ma in un paio di occasioni abbiamo toccato quota dieci (o dodici, non
ricordo bene). Insomma, vi lascio immaginare perché non siano
esperienze facili da dimenticare! ;)
Il bello di avere la
fortuna di poter trascorrere così tanto tempo nel proprio luogo di
vacanza è che si ha l'opportunità di entrare appieno nei ritmi
quotidiani di un paese straniero. E nella quotidianità, ovviamente,
il cibo gioca un ruolo non secondario. Io non ricordo tutto alla
perfezione, ma diversi testimoni confermano che io non abbia mai,
neanche nei primissimi viaggi, avvertito la mancanza della pasta al
sugo. Lasciatomi alle spalle il confine italiano, mi lanciavo piena
di gioia e curiosità all'assaggio di ogni specialità locale (e non
solo) mi si presentasse a portata di forchetta.
I miei zii ricordano
ancora con un certo divertimento il giorno in cui mi portarono con
loro, anche se un po' preoccupati, in un ristorante giapponese a
Dublino. Avevo nove anni, e non avevo idea di cosa fosse il sushi.
Circa trenta secondi dopo l'arrivo delle portate i due mi
osservavano, a metà tra il sollievo e lo stupore, mentre spazzolavo
senza esitazioni zuppa di miso, verdure in tempura e pesce crudo di
ogni forma e dimensione. La mia voglia di assaggiare tutto era
irrefrenabile.
Un orrendo Irish Stew in
un vecchio pub alle isole Ahran, qualsiasi piatto di maiale
concepibile in Germania, aragoste, bistecche e cibo cinese negli
Stati Uniti, il Fish and Chips in Inghilterra, la paella in Spagna,
il couscous in Marocco, il cibo cucinato in strada dalle donne dei
villaggi della Cappadocia. Non ricordo di aver mai avuto paura di
provare sapori nuovi. E in ogni caso, la forchetta è sempre arrivata
prima della paura.
Provo a restringere il
campo per avvicinarmi di più al tema del libro e della ricetta in
questione. Negli ultimi anni ho sviluppato un amore spassionato per
la cucina mediorientale, amore che ho potuto coltivare direttamente a
Pisa, senza spostarmi di un centimetro dal mio appartamento da
universitaria. Al piano inferiore, infatti, viveva (e vive ancora,
sono io che mi sono spostata) una coppia siriana. Non conto più le
volte in cui, rientrando in casa dopo una giornata di studio venivo
inebriata dall'odore di spezie che inondava l'androne del palazzo e
le scale. Mi lanciavo di corsa all'ultimo piano, nella speranza che,
come accadeva piuttosto spesso, un piatto di quelle delizie fosse
arrivato come omaggio anche a casa nostra. Con le altre coinquiline,
analizzavamo e annusavamo il piatto cercando di scoprirne gli
ingredienti. Ricordo le serate estive che trascorrevamo nascoste
dalle tapparelle per goderci l'odore dell'agnello arrosto senza farci
vedere (altrimenti che figura...!). E il giorno in cui al piano di
sotto si macinavano le spezie, con gli odori che riempivano la casa,
e noi in attesa di un barattolino in regalo che avremmo poi
conservato come una reliquia.
Ma l'estasi olfattiva si
accompagnava al tormento di non essere in grado di riprodurre quelle
meraviglie. Eh sì, perché nessuno mi toglierà dalla mente che, per
quanto brava io possa diventare, non avrò mai nel sangue il dosaggio
perfetto delle spezie, la capacità di usare il giusto quantitativo
di cannella per esaltare il sapore della carne... Così come non mi
convinceranno mai che Gordon Ramsay, con tutte le sue stelle
Michelin, sappia fare i ravioli meglio di mia nonna!
La cucina è un'arte
viscerale.
È per questo che ho
deciso di chiedere aiuto a un esperto, anzi a due esperti, e ho
comprato Jerusalem di Yotam
Ottolenghi e Sami Tamimi. Un libro che è un ode alla cucina e alla
cultura mediorientale, e del quale credo che sentirete ancora
parlare. ;)
Devo
fare un'annotazione prima di cominciare. Ho fatto una piccola
modifica alla ricetta, che invece delle pesche sciroppate prevedeva
di preparare delle pesche affogate all'arak. Ingrediente che
ovviamente mi mancava :) Avevo in casa le pesche sciroppate e ho
usato quelle.
Budino di yogurt con
pesche sciroppate
Ingredienti
4 fogli di gelatina (in
tutto 7 gr)
200 ml di doppia panna (va
benissimo la panna fresca semplice)
200 ml di latte intero
90 gr di zucchero
extrafine
1 baccello di vaniglia
privato dei semi
scorza grattugiata di
mezza arancia
200 gr di yogurt greco
Preparazione
Mettete i fogli di
gelatina in una ciotola con abbondante acqua fredda e lasciateli ad
ammorbidire per qualche minuto. Versate la panna e il latte in una
piccola casseruola con lo zucchero, il baccello di vaniglia con metà
dei suoi semi e la scorza di arancia. Su una fiamma media portate a
ebollizione e togliete immediatamente dal fornello. Tirate fuori
dalla casseruola il baccello di vaniglia.
Mettete lo yogurt in una
ciotola di media dimensione e mescolate senza sosta mentre aggiungete
il latte caldo e la panna versandoli adagio. Spremete l'acqua dai
fogli di gelatina, mettete anch'essi nella ciotola e rimestate fino a
che si sciolgono completamente.
Mettete la mistura in
quattro singoli stampi da 150 ml che metterete in frigo per almeno 5
ore. Potete anche lasciarceli per una notte intera, coperti da
pellicola trasparente.
Al momento di servire, per
qualche minuto mettete gli stampi in un recipiente con acqua molto
calda, per facilitare l'estrazione dei budini. Nel frattempo, su una
griglia calda cuocete le pesche fino a che siano leggermente
caramellate. Capovolgere gli stampi dei budini su piatti da portata e
accompagnare con le pesche grigliate.
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